Prima che tutto questo finisca
Coronavirus - comunicato n. 5
Prima che tutto questo finisca dovremmo affrontare una riflessione sulla “normalità” alla quale in molti (politici di varia estrazione, economisti “ortodossi”, industriali di grosso calibro e ancor più grandi amicizie, mezzi di comunicazione, cittadini) non vedrebbero l’ora di far ritorno, prima possibile.
La società alla cui “normalità” si vorrebbe ritornare, tuttavia, è anche quella sinteticamente illustrata dalla Banca d’Italia (fonte non in odore di simpatie verso il sindacalismo di base) nella sua “indagine sui bilanci delle famiglie italiane” di marzo 2018.
Secondo la predetta indagine, la quota di ricchezza netta detenuta dal 30 per cento più povero delle famiglie italiane, in media pari a circa 6.500 euro, è l’1 per cento della ricchezza totale di questo Paese; tre quarti di queste famiglie sono a rischio di povertà.
Il 30 per cento più ricco delle famiglie detiene, invece, circa il 75 per cento del patrimonio netto complessivamente rilevato, con una ricchezza netta media pari a 510.000 euro. Oltre il 40 per cento di questa quota è detenuta dal 5 per cento più ricco, che ha un patrimonio netto in media pari a 1,3 milioni di euro.
Il benessere materiale di una famiglia è solitamente associato al reddito equivalente (vale a dire, in estrema sintesi, un reddito modificato per rendere confrontabili tra loro nuclei di dimensione e composizione diversa) complessivamente percepito in un anno.
In più: una famiglia è “finanziariamente” povera se, anche liquidando tutte le attività finanziarie immediatamente disponibili, non ha risorse sufficienti per evitare il rischio di povertà per almeno tre mesi. In buona sostanza: a causa della perdita del lavoro non riesci ad affrontare le spese necessarie per te e la tua famiglia neppure per i tre mesi successivi dal momento in cui hai perso il lavoro
Ebbene, nel 2016, si trovava in questa condizione di vulnerabilità almeno il 44 per cento della popolazione, una quota ancora decisamente superiore a quella registrata nel 2006, prima dell’avvio della crisi finanziaria globale.
Da un altro punto di vista, già nel corso del 2010, alcuni economisti “non ortodossi” si fecero promotori di una “Lettera ai membri del Governo e del Parlamento, ai rappresentanti italiani presso le Istituzioni dell’Unione europea, ai rappresentanti delle forze politiche e delle parti sociali e, per opportuna conoscenza, al Presidente della Repubblica” che alleghiamo al presente comunicato per la sua attualità (qualcuno, erroneamente, chiamerà preveggenza) e il suo interesse per tutte le lavoratrici, lavoratori e le loro famiglie.
Nella Lettera, gli economisti firmatari evidenziavano (ripetiamo: già nel 2010) che la gravissima crisi economica globale, e la connessa crisi della zona euro, non si risolveranno attraverso tagli ai salari, alle pensioni, allo Stato sociale, all’istruzione, alla ricerca, alla cultura e ai servizi pubblici essenziali, né attraverso un aumento, diretto o indiretto, dei carichi fiscali sul lavoro e sulle fasce sociali più deboli.
I firmatari, riflettono sul serio pericolo che l’attuazione in Italia e in Europa delle cosiddette “politiche dei sacrifici” accentui ulteriormente il profilo della crisi, determinando una maggior velocità di crescita della disoccupazione, delle insolvenze e della mortalità delle imprese, e possa a un certo punto costringere alcuni Paesi membri a uscire dalla Unione monetaria europea.
Il punto fondamentale da comprendere è che l’attuale instabilità della Unione monetaria non rappresenta il mero frutto di trucchi contabili o di spese facili. Essa in realtà costituisce l’esito di un intreccio ben più profondo tra la crisi economica globale e una serie di squilibri in seno alla zona euro, che derivano principalmente dall’insostenibile profilo liberista del Trattato dell’Unione e dall’orientamento di politica economica restrittiva dei Paesi membri caratterizzati da un sistematico avanzo con l’estero…
Tralasciando, solo per ragioni di spazio, le ulteriori argomentazioni che affidiamo alla personale lettura e riflessione, vale la pena evidenziare almeno alcune fra le conclusioni (in verità vere e proprie proposte) che, sia pure a distanza di più di dieci anni, non hanno perso la loro attualità ed emergenza:
“Noi riteniamo dunque che le linee di indirizzo finora poste in essere debbano essere abbandonate, prima che sia troppo tardi.
Per evitare un aggravamento della crisi, occorre che l’Europa intraprenda un autonomo sentiero di sviluppo delle forze produttive, di crescita del benessere, di salvaguardia dell’ambiente e del territorio, di equità sociale.
Affinché una svolta di tale portata possa concretamente svilupparsi, è necessario in primo luogo dare respiro al processo democratico. Per questo, in via preliminare, proponiamo di introdurre immediatamente un argine alla speculazione. A questo scopo occorre sgombrare il campo dalle incertezze e dalle ambiguità politiche. Bisogna quindi che la BCE si impegni pienamente ad acquistare i titoli sotto attacco, rinunciando a “sterilizzare” i suoi interventi.
Occorre anche istituire adeguate imposte finalizzate a disincentivare le transazioni finanziarie a breve termine ed efficaci controlli amministrativi sui movimenti di capitale. Se non vi fossero le condizioni per operare in concerto, sarà molto meglio intervenire subito in questa direzione a livello nazionale, con gli strumenti disponibili, piuttosto che muoversi in ritardo o non agire affatto.
L’esperienza storica insegna che per contrastare efficacemente la deflazione bisogna imporre un pavimento al tracollo del monte salari, tramite un rafforzamento dei contratti nazionali, minimi salariali, vincoli ai licenziamenti e nuove norme generali a tutela del lavoro e dei processi di sindacalizzazione. Soprattutto nella fase attuale, pensare di affidare il processo di distruzione e di creazione dei posti di lavoro alle sole forze del mercato è analiticamente privo di senso, oltre che politicamente irresponsabile.
In coordinamento con la politica monetaria, occorre sollecitare i Paesi in avanzo commerciale, in particolare la Germania, ad attuare opportune manovre di espansione della domanda al fine di avviare un processo di riequilibrio virtuoso e non deflazionistico dei conti con l’estero dei Paesi membri dell’Unione monetaria europea. I principali Paesi in avanzo commerciale hanno una enorme responsabilità, al riguardo. Il salvataggio o la distruzione della Unione dipenderà in larga misura dalle loro decisioni.
Bisogna istituire un sistema di fiscalità progressiva coordinato a livello europeo, che contribuisca a invertire la tendenza alla sperequazione sociale e territoriale che ha contribuito a scatenare la crisi [piccola segnalazione: l’Olanda, che oggi continua a richiamare gli altri Paese al rigore, è lo stesso Paese che negli anni ha ritagliato per sé un comodo posto da paradiso fiscale nel cuore dell’Europa rigorista… N.d.R.]. Occorre uno spostamento dei carichi fiscali dal lavoro ai guadagni di capitale e alle rendite, dai redditi ai patrimoni, dai contribuenti con ritenuta alla fonte agli evasori…
Bisogna ampliare significativamente il bilancio federale dell’Unione e rendere possibile la emissione di titoli pubblici europei.
Si deve puntare a coordinare la politica fiscale e la politica monetaria europea al fine di predisporre un piano di sviluppo finalizzato alla piena occupazione e al riequilibrio territoriale non solo delle capacità di spesa, ma anche delle capacità produttive in Europa….”
Con questo comunicato numero 5, il coordinamento USB Pubblico Impiego dell’università di Trieste intende continuare a promuovere una riflessione collettiva critica focalizzata sul “cosa” sarà di noi quando tutto questo finirà.
Cominciamo a pensarci già adesso.
USB PI – Università degli studi di Trieste
Ferdinando ZEBOCHIN