DIARIO DI UN DETENUTO 'ABUSIVO'
da Carta 18/24 aprile 2008
di Paolo Di Vetta
Martedì 8 aprile. Sveglia alle 6 per andare a lavorare, un impiego precario come assistente tecnico di laboratorio in un liceo scientifico per 1004 euro al mese e il licenziamento già fissato per il 31 agosto, come ogni anno da nove anni. Alle 6.25 squilla il telefono, penso subito alla tendopoli di piazza San Marco. Simonetta mi dice che c’è la polizia e che stanno smontando le tende. I miei programmi cambiano repentinamente, faccio un po’ di telefonate per capire e per avvisare, nel frattempo arriva Angelo e con lui raggiungiamo piazza Venezia. Arriviamo alle 7.10.
La scena che trovo nei giardini è da non credere, soprattutto alla luce della giornata precedente, tende smontate, uomini e donne increduli, polizia. Mi rivolgo al dirigente delle forze dell’ordine e gli dico: «Di questo passo finirete per arrestarci tutti», la risposta è immediata e isterica: «Arrestateli subito».
Di fronte a questa reazione ci siamo seduti sul prato da cui veniamo prelevati di peso e portati sui blindati. In nove ci ritroviamo rinchiusi nel commissariato Trevi-Campo Marzio. Ci tolgono i telefonini, i lacci delle scarpe, i nostri effetti personali, ci lasciano le sigarette ma non l’accendino.
Non riusciamo più ad avere notizie se non quelle che ci danno i consiglieri Pizzo e Mariani e i segretari del Pdci e di Rifondazione Nobile e Smeriglio che vengono a verificare come stiamo.
Alle due del pomeriggio veniamo portati al centro di identificazione di Tor Cervara. Ci sistemano in una cella con i muri cosparsi da schizzi di sangue e incrostati di vomito. Mangiamo un panino con la mortadella. Dopo ci prendano le impronte e ci facciano le foto segnaletiche e intanto, accanto a noi, siamo testimoni di ripetute minacce nei confronti di rom e migranti che sono in altre celle. Sono quasi le 18 quando lasciamo questo posto indegno.
Arriviamo a Regina Coeli verso le sette di sera, nessuno ci ha ancora contestato nulla, le cose che sappiamo le abbiamo raccolte a fatica. Ci sistemano in una cella di sicurezza dalla quale uno alla volta veniamo chiamati e nuovamente fotografati. Poi ci fanno togliere i vestiti e ci perquisiscono.
Chiediamo di rimanere insieme e di poter mangiare qualcosa. La buona disponibilità del medico e del portavitto ci consente di dividere alcune mele e tre uova sode. Infine, ci sistemano nella sala computer trasformata per l’occasione in cella a causa del sovraffollamento, dove troviamo nove materassi e nove coperte.
Mercoledì 9 aprile. Primo giorno di carcere. Siamo curiosi di sapere cosa sta succedendo fuori. Soprattutto vorremmo sapere di cosa siamo accusati, su un foglio abbiamo letto «campeggio abusivo» e non possiamo crederci. Ci portano del latte freddo e delle arance, intanto, tra i detenuti della prima sezione si diffonde la voce della nostra presenza e inizia una vera gara di solidarietà. Arriva caffè caldo, sigarette, un giornale. Tutti, compresi gli assistenti, non si capacitano dei motivi per i quali ci troviamo lì.
C’è un bagno nella cella e così ci laviamo, ma non abbiamo abiti puliti. Aspettiamo notizie che non arrivano, intanto ci portano lenzuola e federe e poi il pranzo. Solo qualche minuto di aria e poi subito di nuovo in cella. Il cappellano ci porta un torrone e qualche sigaretta. Ricomincia l’attesa, l’unica dimensione certa del carcere. Finalmente arrivano gli avvocati. Andiamo a colloquio e capiamo che il pm chiede la restrizione in carcere per alcuni di noi, che quattro verranno scarcerati, che il gip si dovrà pronunciare su convalida e misure. Siamo preoccupati ma abbiamo saputo dell’incontro con il prefetto e questo ci convince di aver fatto la cosa giusta: la nostra speranza è che fuori stiano proseguendo con determinazione quello che avevamo cominciato insieme.
Per tutto il pomeriggio giochiamo a indovinare chi verrà scarcerato, le nostre supposizioni sono azzeccate quasi totalmente. Ci abbracciamo con Stefano, Valerio, Luca e Marco che escono sperando di arrivare in tempo per l’assemblea convocata per le cinque del pomeriggio in piazza Venezia.
Adesso siamo in cinque. Ci manca Luca e la foto del figlio che ogni tanto ci mostrava e che teneva accanto al materasso. Marco con le sue preoccupazioni per la ragazza. Valerio con i suoi racconti sulla Francia. Stefano, per il colore della pelle, sempre identificato come immigrato che rispondeva all’interlocutore in divisa in un perfetto romanesco. Ci siamo addormentati a fatica questa volta, sempre con gli stessi indumenti e con quella battuta nelle orecchie: «Volevate fa’ er campeggio».
Giovedì 10 aprile. E’ la mattina dello sconforto. Continuiamo a non sapere nulla, non abbiamo un asciugamani, uno spazzolino, solo la sera prima è arrivato qualche libro grazie allo scrivano. Mille domande tra noi, come sarà andata l’assemblea, perché nessuno viene a trovarci, è giusto stare lì in quelle condizioni, cosa rischiamo?
Domande senza risposta e con l’angoscia che di ora in ora aumenta. Poco prima del pranzo arrivano nella cella altri sei detenuti, tutti migranti. Ora siamo undici a dividerci nemmeno 30 metri quadrati e un bagnetto. È la goccia: decidiamo di rifiutare il cibo. Un comportamento che fa innervosire l’ispettrice di turno che prima ce ne dice un bel po’ ma poi arrivano asciugamani, magliette, mutandine e calzini, il detersivo per i piatti, la possibilità di fare una doccia.
L’arrivo del deputato Paolo Cento distende definitivamente la situazione. Ci comunica che fuori stanno facendo le pratiche per farci arrivare alcuni pacchi, che il gip ci sentirà domani e che l’assemblea in piazza Venezia è andata molto bene. Il colloquio con l’avvocato ci conferma del rischio di un accanimento verso alcuni di noi, ma le foto starebbero a dimostrare con chiarezza come si sono svolti realmente i fatti. Siamo ottimisti. Un ottimismo aiutato dall’arrivo dei pacchi, dai cambi, dagli spazzolini, dalla visita di Anno Pizzo, Graziella Mascia ed Emiliano e dalle notizie che ci portano. Siamo sempre in undici in cella ma c’è un po’ di entusiasmo in più.
Ora bisogna aspettare fino a domani. Dopo la cena, che passa alle 17, cinque migranti vengono spostati, rimaniamo in sei. Ivano ne approfitta e si organizza un bel letto a due piazze. La notte che arriva è la più lunga. Si dorme poco e male. Verso le cinque anche l’ultimo migrante viene trasferito e rimaniamo di nuovo solo noi.
Venerdì 11 aprile. Una assistente, poco prima delle 9, ci invita a prepararci per il gip. Lo facciamo in pochi secondi ma ci toccherà aspettare ancora mezz’ora, poi andiamo. Ci sistemano in una cella molto piccola insieme a un altro detenuto. Da lì, uno alla volta, siamo chiamati e interrogati dal gip. Ci ritroviamo tutti in un’altra cella (in totale ne abbiamo visitate dieci) e scopriamo che tre di noi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Mentre ci raccontiamo delle foto che sono state mostrate, aspettiamo fiduciosi. Veniamo richiamati insieme agli avvocati e il gip ci comunica l’immediata scarcerazione. Sono da poco passate le dieci.
Iniziano le ore più lunghe e le sigarette cominciano a scarseggiare. Ancora una volta una immediata e spontanea risposta da parte degli altri detenuti: sigarette e caffè per tutti.
Sistemiamo i materassi, pieghiamo le lenzuola, puliamo, cerchiamo di passare il tempo. Vogliamo uscire per andare al corteo. Le ore passano e cominciamo a pensare che non ci permetteranno di andare alla manifestazione.
Giochiamo a carte, a frisbee con i piatti, quando finalmente ci dicono di riconsegnare le stoviglie e le lenzuola. Raccogliamo i nostri sacchi, Marco e Luca ne fanno uno insieme, mentre Carmine è quello con il bagaglio meno ingombrante. Torniamo lentamente in possesso delle nostre cose: i lacci, le cinture, gli orecchini. I telefonini ci vengono restituiti, smontati, un secondo prima di varcare la porta di uscita. Sono passate da poco le otto di sera.
Finisce l’attesa e arriva l’abbraccio di centinaia di persone che arrivano dal corteo al quale avremmo tanto voluto partecipare. Si sta bene tra questi uomini e donne, gli stessi che ci hanno tirato fuori da quel luogo inutile e dannoso.